venerdì 14 settembre 2012

Attento a ciò che desideri, potrebbe realizzarsi

Ho scritto questo post qualche giorno fa, e poi non so perché, forse una sorta di scaramanzia, mi ha trattenuta dal pubblicarlo.

Dopo aver superato l'ultimo esame (figlio anch'esso di una lunga Odissea) continuo a fare strani sogni, o meglio incubi.
L'altra notte ho sognato di essere stata invitata ad una festa da una mia amica. C'erano solo persone che non conoscevo, tranne lei, ma questo per me non è mai stato un problema. Sono una persona piuttosto socievole. Tuttavia, non riuscivo a socializzare con queste persone, di cui alcune iniziarono a flirtare tra loro, altre si chiusero in gruppetti in cui non riuscivo a "penetrare". La mia amica girava continuamente e non riuscivo mai a beccarla. Così mi ritrovai a far su e giù per il giardino, osservando le persone. Mentre ripercorrevo il giardino, in direzione della casa, mi accorsi che un uomo vestito di nero e con i capelli neri (che in parte gli coprivano il volto) mi stava seguendo. Mi resi conto che andare verso l'interno, dove non c'era nessuno, forse non era proprio un'ottima idea. Ma ormai era impossibile cambiare direzione, perché ce l'avevo proprio dietro di me. Mi affrettai e corsi in bagno. C'era un antibagno, e io, stupidamente rimasi li attaccata alla porta, mentre pensavo che sarei dovuta correre proprio dentro il bagno in cui potevo chiudermi a chiave. Nell'antibagno c'ero solo io apppoggiata alla porta. Dopo un minuto circa sentii qualcuno spingere la porta. Io cercavo con il mio peso di tenere chiusa la porta ma niente da fare. Il tizio stava riuscendo ad aprire, ma il sogno terminò lì. Aprìì gli occhi per lo spavento.

Fu un sogno strano e sicuramente inquietante. Restaii sveglia con l'intento di non ricadere nel sogno (a volte se mi riaddormento subito i sogni continuano da dove li ho lasciati). Più tardi, durante la giornata, ho deciso di andare a cercare quale fosse il significato di un uomo che ti insegue. Ineffetti per me è un sogno ricorrente, maniaci, gente che mi segue.. l'ho sempre attribuito alle varie storie che si sentono in giro e a certi episodi personali. Però questo sogno aveva qualcosa di diverso, era particolarmente inquietante e l'uomo era rimasto particolarmente impresso nella mia mente. Su internet ho trovato ovviamente interpretazioni generiche e contrastanti. Tuttavia mi ha colpito una ragazza che sosteneva che la fuga da quest'uomo significa la paura di qualcosa che si desidera. Un pò curiosa come interpretazione..

In questi giorni ho continuato a pensare a questa cosa. E non riesco a togliermi dalla mente l'idea che quell'omino che mi inseguiva (dal momento in cui l'ho descritto qua, si è come "concretizzato") nella mia mente) rappresenti una parte di me che cerca di sfondare la porta per entrare, ma alla quale io continuo a negare l'accesso. Cosa voglio io realmente?

venerdì 31 agosto 2012

Se il buongiorno si vede dal mattino

Ecco poppea. Ecco la pioggia. Un risveglio malinconico. Un rumore di sottofondo a cui, dopo questa torrida estate, non eravamo più abituati. E poi una mail dalla Spagna e una dalla mia migliore amica. Che strano risveglio, che strano periodo.

Mi sono lasciata trascinare dal turbinio di eventi che mi ha travolto da quando sono tornata da Strasburgo. E' stata l'estate più strana degli ultimi tempi.
Dopo aver scoperto di non avere passato un esame, tutti i miei piani sono saltati. Niente più laurea a luglio, niente più relax estivo. Ma non son stata tanto a lambiccarmi. Ho capito che crucciarsi troppo per le cose non ha senso. Quindi ho abbassato la testa e ho lasciato che tutto andasse come doveva andare. Ma ora è il 31 agosto e mi rendo conto che per me questo mese è come non fosse esistito.
Forse non poteva che essere così, troppe presa da mille pensieri. La scelta della specialistica, l'invio della relativa documentazione entro inizio mese, la scelta della casa, l'ultimo esame il 7 settembre, la prova finale il 17 settembre, la proclamazione il 21 settembre, l'inizio dei corsi il 24 settembre. Una serie di impegni concatenati l'un l'altro.

Probabilmente dopo il 7 mi sentirò un pochino più leggera. Ora sono troppo stanca e stressata per rendermi conto che sta finendo una fase e sta per iniziarne un'altra. Per me ineffetti è come un ciclo continuo. Ancora non so neanche quante persone dovrò salutare e quante invece continueranno con me questo percorso.

Vorrei dire "sembra ieri che... " Ma la realtà è che non sembra ieri. Sono passati 3 anni e sono volati per la loro intensità. Ma ne è passata di acqua sotto i ponti. Vorrei aggiungere molte cose, ma ci sarà tempo per farlo.



domenica 26 agosto 2012

Ho troppo da fare.

Qualche giorno fa lessi un articolo su Internazionale che mi colpì particolarmente. Ineffetti mi riconoscevo nella descrizione delle persone che l'autore critica aspramente, e le sue parole mi sono rimaste impresse come un monito.
Così sono andata a cercarlo sul web per condividerlo qui, in modo da avercelo sempre a portata di mano.

"Se vivete negli Stati Uniti del ventunesimo secolo, avrete già sentito un sacco di gente dirvi che ha da fare. È diventata la risposta standard ogni volta che chiedi a qualcuno come va: “Ho da fare”, “Ho un gran da fare.” “Ho troppo da fare.” È chiaramente un’ostentazione mascherata da lamentela. In realtà significa “Mica male come problema”, oppure “Meglio del contrario”. Fateci caso: di solito chi si lamenta del troppo da fare non è gente che fa mucchi di turni in reparto di terapia intensiva o fa la spola fra tre impieghi a salario minimo. Quelli non hanno troppo da fare: quelli sono stanchi. Sfiniti. Non stanno in piedi. No, a farlo sono quasi sempre delle persone che tutto il loro da fare, molto semplicemente, se lo impongono: si tratta sempre di lavori e di obblighi che hanno assunto volontariamente, di corsi e attività a cui i figli partecipano dopo essere stati “incoraggiati” a farlo.
Sono indaffarati a causa della loro stessa ambizione, del loro slancio o dell’ansia, perché sono dipendenti dall’iperattività e terrorizzati da ciò che dovrebbero fronteggiare in sua assenza. Quasi tutti quelli che conosco sono straindaffarati. Quando non lavorano, o non fanno qualcosa per promuovere il loro lavoro, provano ansia e senso di colpa.
Infilano nelle loro tabelle di marcia il tempo con gli amici, come certi studenti con la media bassa fanno in modo di mettere in curriculum qualche ora di lavori socialmente utili perché fa bella figura sulle domande per l’università.
Qualche giorno fa ho scritto a un amico chiedendogli se questa settimana gli andava di fare qualcosa. Mi ha risposto che non aveva molto tempo, ma se saltava fuori qualcosa di farglielo sapere, che magari si prendeva qualche ora dal lavoro. Ho avuto la tentazione di specificargli che la mia domanda non era un preavviso in vista di un futuro invito: la mia domanda era l’invito. Ma il suo da fare era come un fortissimo rumore continuo al di sopra del quale lui mi gridava le cose, e alla fine ho rinunciato a strillare per farmi sentire a mia volta.
Perfino i bambini, oggi, hanno sempre da fare, con giornate organizzate fin nelle mezz’ore, tra corsi e attività extrascolastiche. Arrivano a casa a fine giornata stanchi come gli adulti.Io appartengo a una generazione di mezzo, e ogni pomeriggio avevo tre ore di tempo totalmente disorganizzato e quasi sempre libero da controlli che usavo per fare qualsiasi cosa: sfogliare l’enciclopedia, creare filmini d’animazione, girare con gli amici per i boschi lanciandosi zolle di terra negli occhi, tutte cose dalle quali ho ricavato capacità e informazioni importanti, che ancora oggi rimangono preziose. Quelle ore di libertà sono diventate il modello di come avrei voluto vivere il resto della mia vita. L’isteria di oggi non è una condizione della vita necessaria né inevitabile. È una cosa che ci siamo scelti, anche solo accettandola.
Qualche tempo fa ho parlato su Skype con un’amica che ha lasciato la città per gli affitti troppo alti, e che adesso vive in una residenza per artisti in un paesino nel sud della Francia. Dice di essere felice e rilassata per la prima volta dopo anni. Lavora, sia chiaro, ma il lavoro non le consuma l’intera giornata e il cervello. Dice che le sembra di essere tornata all’università: ha un giro di amici che si ritrovano al bar tutte le sere. Ha di nuovo un fidanzato (una volta mi aveva così riassunto, con mestizia, la questione delle relazioni a New York: “Hanno tutti troppo da fare e credono tutti di poter fare di più”). Lei credeva che la sua personalità – frenetica, nervosa, ansiosa e triste – fosse l’effetto di una deformazione imposta dall’ambiente. Ma nessuno di noi vuole vivere in questo modo, non più di quanto uno voglia trovarsi in un ingorgo stradale o farsi calpestare dalla folla di uno stadio, o subire i crudeli responsabili delle scuole superiori: è una cosa che ci costringiamo a fare collettivamente e vicendevolmente.
Essere indaffarati funziona come una sorta di rassicurazione esistenziale, di barriera contro il senso di vuoto: è chiaro che la nostra vita non può essere insulsa o banale o priva di senso se siamo sempre così indaffarati, pieni di impegni, richiesti a ogni ora del giorno.
Una volta conoscevo una ragazza che faceva uno stage nella redazione di una rivista. Durante la pausa pranzo non le permettevano di uscire, nel caso avessero avuto urgente bisogno di lei. Parliamo di una rivista di programmi televisivi, la cui esistenza è diventata inutile nell’istante in cui sui telecomandi è comparso il tasto “menù”, ed è quindi difficile interpretare una simile pretesa di indispensabilità come qualcosa di più di una forma di autoinganno istituzionalizzato.
Oggi, un numero crescente di persone non fa più nulla di tangibile. Forse tutto questo nostro istrionico sfinimento è solo un modo per dissimulare il fatto che controlli che quel che facciamo, in buona parte, non ha la minima importanza.
Io non sono indaffarato. Sono l’ambizioso più pigro che conosco.
Come molti di quelli che scrivono, anch’io sento di non meritare di vivere quando per un giorno non scrivo, ma penso anche che quattro o cinque ore siano sufficienti per guadagnarmi un altro giorno di permanenza sul pianeta. Nelle migliori giornate normali della mia vita, al mattino scrivo, al pomeriggio vado a fare un lungo giro in bicicletta e le commissioni, e alla sera vedo gli amici, leggo o guardo un film.
A me questo sembra un ritmo sano e piacevole. E se mi chiamate chiedendomi se ho voglia di lasciar perdere il lavoro e andare a visitare la nuova ala americana del Metropolitan, o a guardare le ragazze a Central Park, o semplicemente a bere cocktail rosa con un retrogusto di menta per tutto il giorno, io vi risponderò: “a che ora?”.
Negli ultimi mesi, però, a causa di una serie di obblighi professionali ho pericolosamente cominciato a essere indaffarato anch’io.
Per la prima volta ho potuto dire agli altri, e senza mettermi a ridere, che avevo “troppo da fare” per andare in un certo posto o fare quello che mi si chiedeva. E ho capito perché alla gente questo tipo di lamentela piace: ti fa sentire importante, richiesto e sfruttato.
Solo che io detesto essere indaffarato davvero. Ogni mattina avevo la posta piena di email in cui mi si chiedeva di fare cose che non volevo fare o mi si presentavano problemi che dovevo risolvere. la situazione si è fatta sempre più insopportabile, fino a quando un giorno sono fuggito nella località segreta da cui vi scrivo.
Qui di obblighi quasi non ne esistono. Non c’è la televisione. Per controllare la posta elettronica devo prendere la macchina e andare in biblioteca. Passo anche una settimana intera senza vedere nessuno che conosco. Mi sono ricordato dell’esistenza dei ranuncoli, delle cimici e delle stelle. Leggo. E mi sono rimesso a scrivere sul serio per la prima volta dopo mesi.
È difficile trovare qualcosa da dire sulla vita se non ci si immerge nel mondo, ma è altrettanto impossibile capire di cosa potrebbe trattarsi, o come meglio dirlo, se poi non si fugge.
L’ozio non è solo una vacanza, un’indulgenza o un vizio: è indispensabile al cervello come la vitamina D al corpo, e in sua assenza viviamo una sofferenza mentale deformante come il rachitismo.Lo spazio e il silenzio offerti dall’ozio sono una condizione necessaria per fare un passo indietro e osservare la vita nella sua interezza, effettuare connessioni inaspettate e attendere il repentino lampo estivo dell’ispirazione. Paradossalmente, è necessario se si vuole combinare qualcosa. “L’indolente sognare è spesso l’essenza di ciò che facciamo”, scriveva Thomas Pynchon nel suo saggio sull’accidia. L’eureka di Archimede nella vasca da bagno, la mela di Newton, Jekyll e Hyde: la storia è piena di aneddoti in cui l’ispirazione arriva nei momenti di ozio e in sogno.
Viene quasi da chiedersi se le più grandi idee, invenzioni e capolavori non sono merito dei fannulloni, perdigiorno e scansafatiche più che degli stacanovisti.
“L’obiettivo del futuro è la piena disoccupazione, così che tutti possano giocare. Ecco perché è necessario distruggere l’attuale sistema politico-economico”. Può sembrare il proclama di un anarchico armato di canne, ma in realtà sono parole di Arthur C. Clarke, che tra un’immersione in mare e una partita a flipper trovò il tempo di scrivere Le guide del tramonto e concepire i satelliti per le telecomunicazioni.
Il mio vecchio collega Ted Rall ha da poco scritto un editoriale in cui propone di separare il reddito dal lavoro, dando a tutti i cittadini uno stipendio garantito, il che suona esattamente come il genere di idea assurda che tra un secolo verrà considerata un diritto umano fondamentale, come l’abolizione della schiavitù, il suffragio universale e la giornata lavorativa di otto ore.
Furono i puritani a trasformare il lavoro in virtù, evidentemente scordandosi che Dio l’aveva inventato come punizione.
Forse il mondo andrebbe rapidamente a rotoli se tutti si comportassero come me. Ma mi sento di ipotizzare che una vita umana ideale si collochi da qualche parte tra la mia proterva indolenza e il corri corri frenetico del resto del mondo.
Il mio ruolo è semplicemente quello di cattivo esempio: sono il ragazzino che fuori dalla finestra dell’aula fa le smorfie a te seduto al banco, invitandoti, solo per stavolta, a inventare una scusa e venire qui fuori a giocare.
Nel mio caso, quest’incrollabile indolenza è più un lusso che una virtù, ma è vero che ho preso la decisione, molto tempo fa, di privilegiare il tempo rispetto al denaro, perché ho sempre avuto chiaro che il miglior modo d’investire il mio tempo limitato sulla terra è trascorrerlo con le persone che amo.
È possibile che sul letto di morte io mi penta di tutto il lavoro non fatto, e di non aver detto tutto quello che avevo da dire, ma in realtà penso che il mio vero rimpianto sarà quello di non potermi più fare un’altra birra con Chris, un’altra lunga chiacchierata con Megan, o un’ultima grassa risata con Boyd.
La vita è troppo breve per darsi davvero da fare. - Tim Kreider"

mercoledì 22 agosto 2012

Alienazione


Chissà perché quando mi trovo davanti all’opportunità di buttar giù qualche riga, improvvisamente il mio cervello si blocca. Ho sempre desiderato avere uno di quegli strumenti che utilizzava Silente per infilarci i propri pensieri. Perché lo potresti fare in qualsiasi momento, e poi andarli a ripescare con calma. Avrei bisogno di questo. Infatti spesso la mia mente vaga e lunghi monologhi si formulano mentre sono in bagno o prima di andare a dormire. Degni di un trattato filosofico penso io. O forse spazzatura.
Per me scrivere significa entrare in un mood particolare. Un misto di malinconia e riflessione. Difficilmente riesco ad entrarci a comando. Invece, quando mi ci trovo, non sono quasi mai nella condizione di poter scrivere. Non so perché ho aperto questo blog. Forse da un po’ volevo riprendere a scrivere. Anche di cose inutili come queste.
Ultimamente nella mia testa c’è un turbinio di pensieri inarrestabile. Ansia per l’esame? Per la laurea? Per il futuro? Rifiuto di accettare che è veramente finita l’esperienza di Strasburgo e che a settembre si torna all’opprimente vita universitaria? Voglia di evadere dalle responsabilità e continuare a progettare di tutto e di più? Mi dicono che ho troppa fantasia, ma io penso che a volte sognare sia l’unica cosa giusta da fare.
Il mio sogno attuale è: vincere la lotteria, e viaggiare per 6 mesi. Andare nei posti più impensabili e scattare tante foto. Dico solo sei mesi perché poi, anche se ricchissima, vorrei continuare l’università.
No, scherzo. Ovviamente questo non è il mio sogno attuale. Attualmente non penso di avere un vero e proprio sogno, perché i sogni sono fini a se stessi. Quelli che ronzano nella mia mente sono più che altro progetti che spero ardentemente di realizzare, ma SOLO perché sono tutti parte di un mosaico che c’è nella mia testa.
A volte mi chiedo se mi renda felice vivere così, una vita di compromessi. Alla fine credo di si, almeno in parte. Perché ho notato che se la parte razionale di me non è soddisfatta, non riesce ad esserlo neanche quella più istintiva. Però quella parte istintiva è sempre li. È quella che quando è andata a Berlino si è profondamente innamorata, e SOGNAVA di andare li, da sola, per un anno. Non importa come o perché, ma DOVEVA farlo. Ecco si, Strasburgo aveva riacceso quella parte di me. L’Italia mi ha fatto rientrare nei miei vecchi abiti.
E allora eccomi qui, con qualcosa che mi manca come sempre.